Al Re Lear di Shakespeare, Gabriele Lavia aveva già dedicato un incontro di lettura aperto al pubblico, nel maggio 2024, al Teatro Argentina, presentandolo come:
Poi, il 27 novembre 2024, proprio il Re Lear nell’interpretazione e regia di Lavia ha inaugurato la Stagione Teatrale 2024/2025 del Teatro Argentina.
Ho assistito alla Prima e, prima ancora, avevo seguito alcune interviste in cui Gabriele Lavia stesso spiegava in breve l’intenzione del Suo allestimento scenico. Volutamente una interpretazione del testo completamente diversa da quella che aveva vissuto nei panni di Edgar, nella regia di Strehler del 1972, pur utilizzando la medesima traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari (“perché deve essere il Re Lear della mia memoria”).
Re Lear, spiega Gabriele Lavia:
“è la storia di un vecchio che lascia il potere ai giovani. Giovani che però non hanno la cultura per gestirlo, tranne uno: Edgar, il discriminato, l’unico che ha coscienza perché ha conosciuto il fondo dell’esistenza, la discriminazione, la pazzia, il dolore, la fame, il freddo.
Avendo attraversato queste esperienze, Edgar capisce che il potere non è un punto d’arrivo, ma un incarico, un in-carico (cum-carico): un peso addosso.Tant’è che, all’inizio, Re Lear dice: ‘voglio cedere il mio regno per sgravarmi da questo incarico’.
A differenza di Lear, Edgar ha capito una cosa: ‘non ci tireremo fuori dal nostro incarico, né potremo pretendere di essere eterni’
In poche parole, la chiave dell’opera.
Ma veniamo alla mia lettura dello spettacolo, come semplice spettatrice, sebbene con una formazione e un vissuto nel campo artistico che inevitabilmente orientano il mio sguardo.
Quello che ho visto in scena, nella mia interpretazione della scelta registica e l’insieme di scenografia, luci e costumi, non è stato soltanto il dramma di un re che abdica, ma qualcosa di più profondo: ci ho visto un voluto parallelismo con il Teatro contemporaneo che, come Lear, rischia di cedere alle lusinghe della superficie e di perdere sé stesso.
Per “Teatro”, intendo non solo l’istituzione o il palcoscenico, ma l’essenza stessa del fare teatro, il suo senso più profondo, la competenza degli attori, il gesto creativo, la tensione artistica che anima ogni messa in scena. È questo “fare Teatro” che, nella mia lettura, rischia – come Lear – di perdersi, sedotto dalla superficie e dall’apparenza.
Re Lear abdica al potere cedendo il regno sedotto dalle parole vuote e dalle adulazioni delle figlie scaltre Goneril e Regan. Disereda Cordelia, l’unica che gli si pone con sincerità, senza esagerazioni. In questo malaugurato gesto, il regno di Lear (e con esso la sua stessa identità), si frantuma.
Allo stesso modo, il Teatro, se smette di cercare la propria autenticità per compiacere le mode, i gusti passeggeri o le illusioni del pubblico, rischia di perdere la sua forza vitale. Provo ad approfondire il mio punto di vista, mettendo in luce alcuni aspetti per me particolarmente evidenti: se il Teatro rinuncia all’esigenza di competenza attoriale – in un tempo in cui molti si improvvisano “attori” senza formazione, forti soltanto di una rilevanza social(e) – e trascura le tecniche della messa in scena, l’autenticità dell’interpretazione, la maschera vocale, il potere del gesto, la verità del corpo in scena; e se, allo stesso tempo, rinuncia alla sua funzione critica, poetica, artistica per abbracciare esclusivamente ciò che è facilmente applaudito, allora il Teatro si svuota della sua essenza. Proprio come Lear che, fidandosi delle lusinghe, rinuncia al discernimento e alla saggezza nel governare il suo regno.
In entrambi i casi (il sovrano di Shakespeare e il Teatro), il tradimento nasce da una rinuncia interiore: la rinuncia alla verità scomoda a favore di una menzogna rassicurante. Il prezzo, però, è altissimo: smarrire se stessi, smarrire il proprio potere, precipitare nella follia o nell’irrilevanza.
E con le scelte sbagliate il teatro muore, proprio come muore il re.
Per me dunque Lavia ha interpretato la disfatta di un re, certo, ma ha anche raccontato il lento declino del Teatro che abdica alla sua essenza.
La scenografia scelta per la messinscena è chiara: un teatro spoglio, fatiscente, pieno di polvere e sedie rovesciate come a sottolineare che il tempo della grandezza è passato.
Gli attori si vestono in scena, davanti a noi, cercando di riportare in vita da un vecchio baule, qualcosa di antico e autentico sopravvissuto a fatica tra le rovine. I costumi, creati da Andrea Viotti, vengono indossati su una base moderna, nera e neutra: soprabiti dallo sfarzo regale, capaci di evocare un’eco lontana. Accesi nelle nuances dell’oro durante la fase iniziale, evocano lo splendore di una grandezza passata, per poi spegnersi in toni ombrati e scuri, nella fase del decadimento e della rovina.
A livello interpretativo l’uso della “maschera vocale”, senza cedere alla scorciatoia dei microfoni ad archetto fissati sul volto, è garanzia di autenticità. D’altronde al Teatro Argentina ho sempre trovato questo tipo di qualità e bravura degli attori in scena ed era indubbio che Lavia pretendesse dalla sua compagnia la stessa voce di maschera, della quale lui è ovviamente Maestro, riuscendo a modulare anche i sussurri e farli sentire fin sull’ultimo ordine dei palchetti.
Classe 1942, Gabriele Lavia dimostra che l’età non è un limite, ma può essere una risorsa che arricchisce l’interpretazione di personaggi complessi come Re Lear, offrendo al pubblico un’esperienza teatrale intensa e indimenticabile. Domina la scena con una forza magnetica e un’intensità di lungo corso: non è solo un attore che interpreta Lear, è un corpo che sfida il tempo, un’anima che regge, nel personaggio, il peso del potere, del dolore e della follia senza mai cedere. Dimostrando che la vera energia del teatro nasce dalla passione, non dall’anagrafe.
Concludo con un encomio ad alcuni interpreti che hanno saputo restituire pienamente il respiro tragico e umano della vicenda. Penso a Ian Gualdani, che con uno straordinario ritmo veste i panni di Edmund; all’energica Federica Di Martino, nei panni di Goneril; a Giuseppe Benvegna, nel ruolo di Edgar, che unisce una notevole capacità interpretativa a una grande energia fisica (fra le altre cose, resterà a lungo chiuso in un baule in scena); e al Matto, portato in scena da Andrea Nicolini, che con delicatezza e intelligenza ha saputo incarnare quella voce ironica e amara che attraversa tutto il dramma, senza mai cadere nella caricatura.